Uno degli aspetti spesso più confusi in materia di Salute e Sicurezza sul Lavoro riguarda la gestione delle prestazioni lavorative operate all’estero da lavoratori dipendenti di aziende italiane. Quali sono i principali riferimenti normativi? Quale la legge da applicare?
La gestione del lavoratore inviato all’estero – o del lavoratore inviato dall’estero in Italia – è probabilmente una tra quelle che solleva più dubbi e perplessità nei datori di lavoro, preoccupati delle questioni economiche e sanzionatorie in cui potrebbero imbattersi. Le normative di riferimento, infatti, potrebbero essere di fatto più di una:
- le Direttive comunitarie: 89/391 CE su salute e sicurezza; 97/71 CE sul distacco dei lavoratori nell’ambito delle prestazioni di servizio
- i Regolamenti UE:L 593/08 su leggi applicabili alle obbligazioni contrattuali
- i principi di Diritto Penale
- i Principi Inderogabili in materia di SSL (D.Lgs. 81/08)
E quindi, quale applicare? In genere la legge a cui fare riferimento viene scelta dalle parti che stipulano il contratto insieme. Non si tratta, chiaramente, di una scelta totalmente libera, poiché le parti in causa non possono derogare a determinare regole a tutela di beni di rilevanza costituzionale, come la salute dei cittadini e la sicurezza dei lavoratori. Entriamo nel caso specifico, considerando ad esempio la situazione in cui capita un infortunio a un lavoratore di un’azienda italiana distaccato all’estero. Può comportare responsabilità per il datore di lavoro e subdelega (magari a un dirigente) in Italia?
Nell’art. 6 del codice penale (c.p.) si afferma che “il reato si considera commesso nel territorio dello Stato - in Italia - quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione o dell’omissione”.
Se consideriamo i reati caratterizzati da evento infortunistico (che viola gli artt. 589 e 590 c.p.) è ritenuto commesso in territorio italiano sia il reato di omicidio colposo o lesioni personali quando il lavoratore si infortuna nello Stato italiano, sia, in caso di evento all’estero, il reato che derivi causalmente da una azione o omissione che è avvenuta in tutto o in parte nel territorio dello Stato (incompleta valutazione dei rischio; omessa formazione). A tal proposito, con la sentenza n. 43480, il 17 ottobre 2014 la Cassazione Penale ha stabilito, in un caso di morte del lavoratore inviato dal datore di lavoro all’estero, che “è corretta l’affermazione della giurisdizione italiana e l’individuazione del giudice competente per territorio, trattandosi di delitto comune (infortunio sul lavoro) astrattamente ascrivibile a un cittadino italiano (datore di lavoro), commesso all’estero e come tale punibile, ai sensi dell’art. 9 c.p., comma 2, su istanza della persona offesa”, a maggior ragione se viene avanzata una querela da un parente di primo grado.
In definitiva, l’obbligo di sicurezza nei confronti del lavoratore italiano che svolge attività fuori dai confini nazionali ricade sul datore di lavoro italiano, il quale deve assicurare idonee misure per tutelarne la salute e la sicurezza, tenendo conto del principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”. La Cassazione Penale nel 2014 ha ribadito con la sentenza n. 2626, che: “seppure è vero che l’art. 2087 c.c. non introduce una responsabilità oggettiva del datore di lavoro, è altrettanto vero che […] esso obbliga il datore di lavoro non solo al rispetto delle particolari misure imposte da leggi e regolamenti in materia anti infortunistica, ma anche all’adozione di tutte le altre misure che risultino, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratore, salvi i casi di comportamenti o atti abnormi ed imprevedibili del lavoratore medesimo, ma non di colpa di quest’ultimo. […] le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro […] sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente.”
Il datore di lavoro dell’azienda deve, quindi, assicurare idonee misure per la tutela della salute e della sicurezza secondo i livelli prescritti dalle norme di prevenzione della normativa italiana, avuto riguardo al principio di massima sicurezza tecnologicamente possibile. Ciò è ulteriormente confermato dalla circostanza che il lavoratore rimane assicurato INAIL in Italia.
Di fatto, si avvalora la fondamentale importanza della programmazione e della realizzazione di una corretta valutazione dei rischi, della quale, in caso di invio di lavoratori all’estero, deve fare parte integrante la considerazione dei rischi ai quali sono esposti tali lavoratori nel paese ospitante. In tale logica il datore di lavoro italiano deve considerare i rischi generici aggravati, ovvero quelli concernenti le caratteristiche geografiche e climatiche della località estera, le condizioni sanitarie, le caratteristiche culturali, politiche e sociali della comunità, il rischio di guerre o secessioni e l’adeguatezza delle strutture di supporto per l’emergenza e il pronto soccorso. Quindi, le misure da adottare saranno protocolli sanitari e materiale informativo da fornire ai lavoratori.
Va, però, sottolineato che le modalità di gestione del lavoro all’estero vanno differenziate – pur nel medesimo contesto normativo di riferimento – a seconda che:
- il Paese in cui si invii il lavoratore sia “in area UE”
- il Paese in cui si invii il lavoratore sia in un Paese “extra UE”.
Ai lavoratori distaccati in ambito comunitario si applicano le disposizioni di cui alla direttiva n. 97/71/CE, la quale prevede che la normativa applicabile sia quella del Paese ospitante. In caso di invio di un lavoratore presso un Paese UE è infatti possibile per il datore di lavoro fare affidamento su un substrato comune di regole che permette una sorta di reciprocità tra i regimi giuridici applicabili. Ne deriva che qualunque sia lo Stato dell’Unione europea in cui venga svolta la prestazione, purché questo abbia recepito le direttive comunitarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro, applicando la normativa locale vengono sicuramente garantite misure di prevenzione con i livelli essenziali di tutela equivalenti a quelli italiani.
Nel caso di invio di un lavoratore in un Paese non europeo non è, invece, possibile fare affidamento su un sistema di norme uniforme tra il Paese di provenienza e quello ospitante. Il datore di lavoro deve quindi valutare quanto le regole del Paese in cui si “manda” il lavoratore siano adeguatamente “sicure” per quest’ultimo, perché anche nei Paesi extracomunitari dovrà garantirgli livelli di tutela equivalenti a quelli previsti dalle norme del nostro Paese. In particolare, dovrà essere data specifica attenzione ai rischi generici aggravati riscontrabili nei cosiddetti Paesi a rischio. È importante sottolineare però che in materia di requisiti di sicurezza di apparecchiature e macchine gli standard vigenti in Europa, emanati dagli organi di normazione europei CEN, CENELEC, ETSI, sono equivalenti a quelli internazionali emanati dagli organismi di normazione internazionale ISO, IEC, ITU, o a quelli recepite dagli organismi nazionali di normazione dei Paesi extraeuropei.
È, però, giusto considerare anche l’ipotesi “inversa” rispetto a quella sin qui considerata, corrispondente alla circostanza che l’azienda italiana si avvalga di personale straniero che lavori in Italia, la quale va inquadrata alla luce dei medesimi principi sin qui riportati, che verranno attuati in modo “simmetrico” rispetto a quanto appena esposto. A tali lavoratori si applicherà la normativa che le parti hanno individuato come riferimento e, comunque, al lavoratore straniero operante in Italia andrà garantito dalle parti (compresa, quindi, l’azienda italiana “ospitante”) un livello di tutela coerente con quello che il nostro Paese garantisce al lavoratore italiano che opera – magari svolgendo medesime mansioni rispetto al lavoratore straniero – nella medesima azienda.
A tale ultimo riguardo, interessante appare quanto recentemente esposto dalla Cassazione penale con la sentenza n. 36268 nel caso di un infortunio occorso ad un lavoratore di una ditta croata in un cantiere italiano, evidenziando come rispetto alla impresa straniera: “l’imputato avesse omesso di esaminare la documentazione relativa alla sicurezza del lavoro dell’impresa appaltatrice e non avesse esercitato controlli e verifiche” in ordine alla capacità tecnico-professionale dell’azienda straniera ad operare in sicurezza, come richiesto dalla normativa italiana (art. 26 e Titolo IV del D.lgs. 81/2008). In particolare, secondo la Cassazione, anche nei riguardi di una impresa non italiana “la posizione di garanzia del datore di lavoro in merito alla scelta dell’impresa appaltatrice trova la sua ragion d’essere nella finalità di evitare che, attraverso la stipula di un contratto di appalto, vengano affidate all’appaltatore lavorazioni o mansioni che il singolo lavoratore non sia in grado di svolgere, con incremento del rischio per la sua sicurezza. […] Si può, dunque, desumere dalla norma in esame una precisa regola di diligenza e prudenza che il committente dei lavori dati in appalto è tenuto a seguire e, in particolare, l’obbligo di accertarsi che la persona alla quale affida l’incarico sia, non solo munita dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, come si evince dal riferimento, comunque non esclusivo, al certificato della Camera di Commercio, ma anche della capacità tecnica e professionale proporzionata al tipo di attività che deve esserle commissionata e alle concrete modalità di espletamento della stessa. In altre parole, tale norma svolge funzione integrativa del precetto penale che sanziona il reato di lesioni colpose ponendo a carico del committente l’obbligo di garantire che anche l’impresa appaltatrice che svolge attività nella sua azienda si attenga a misure di prevenzione della cui inosservanza lo stesso committente sarà chiamato a rispondere”.